Il Sole 24 ore riporta uno studio svolto dall’Osservatorio HR Innovation practice (Politecnico di Milano) in collaborazione con Doxa dove la prima motivazione per cambiare lavoro riguarda il “Benessere fisico e mentale” (36%) superando così la più scontata “Retribuzione e benefit economico” (35%) lasciando il terzo posto al vecchio cavallo di battaglia “Opportunità di crescita e carriera” (24%).
L’ardua decisione di lasciare il noto (posto fisso) per l’ignoto non è più motivata dall’ambizione personale, dalla profonda esigenza di crescere ed evolvere in una carriera gratificante, ma piuttosto dalla necessità del tutto umana di una qualità di vita migliore.
L’Osservatorio spiega questi numeri nella nuova generazione Z, più incostante, che supera la vecchia visione della generazione Boomer, troppo centrata sul lavoro. Ma qui ci siamo dimenticati qualcosa. Ancora una volta ci siamo dimenticati del fattore X: la generazione X.
Chissà per quale strano gioco del destino, chi ha vissuto, o è nato, nei mitici anni sessanta si è preso le luci della ribalta, lasciando alla generazione seguente, i favolosi anni 70, la generazione X, nel più totale oblio. Negli anni a seguire i Millennials, o generazione Y, si sono fatti avanti, anche grazie al temuto “bug” del 2000, lasciando così le briciole ad una generazione solida e capace, ma con seri problemi di autostima.
L’arrivo della pandemia ha sparigliato le carte, lasciando i Millennials/ generazione Z confusi di fronte allo schermo del cellulare e svelando una problematica ben più seria. I Boomers, alla soglia dei settant’anni, si sentono ancora adolescenti e la generazione X, dopo molte parole e grandi aspettative, si ritrova svuotata e senza più motivazione. Quante promesse! Il posto fisso, tanto amato nel nostro paese, la pensione assicurata, la certezza del lavoro, tanto lavoro. Il merito? No, quello no. La retribuzione? No, quella no. La serenità? Mah, non è detto.
I tempi sono cambiati, sono cambiati in fretta, per i nuovi Millennials che sono il futuro, che sanno tutto, che pretendono, che hanno diritto. E poi l’Europa, che non conosce posto fisso, che parla di merito e di busta paga. Ma chi paga? Così le promesse lasciano posto alle amarezze di un paese che non riconosce, non premia, perché non giudica: in fondo siamo tutti uguali. Parliamo di nuova generazione, ma non ci siamo presi cura della generazione precedente. Le promesse dei Boomers si sono perse nel vento e ancora oggi usiamo una unità di misura obsoleta per un mondo del lavoro con tempi e metodi del tutto nuovi.
La pandemia ci ha ricordato quanto flebile sia la vita, i valori devono essere altri. Il lavoro non è più una triste necessità, ma l’occasione di mettersi alla prova e dimostrare il proprio valore. La socialità: il lavoro è una grande occasione di incontro e di relazione. La connettività: tutti abbiamo un telefonino che disegna un nuovo concetto di produttività e di flessibilità.
Interessante che in questo studio il 13% degli intervistati abbia parlato di “Flessibilità nell’orario di lavoro”. Probabilmente sono donne, ma questa è un’altra storia.